Belfast di Kenneth Branagh: qualche riflessione sul regista e sul film

Dal 24 febbraio è nei cinema italiani Belfast di Kenneth Branagh, film semi-autobiografico che l’autore ha ambientato nella capitale nordirlandese alla fine degli anni 60.

Per l’occasione, invitiamo sul nostro blog Ilaria Mainardi: pisana, scrittrice e saggista, Ilaria è autrice, tra gli altri, di un testo dedicato proprio a Branagh, The Day is Yours. Kenneth Branagh (Siska Editore, 2011) e del recente Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks (Les Flâneurs Edizioni, 2021).

*

Kenneth Branagh, attore e regista

Se l’epoca dei social network ci ha abituato a troppo facili entusiasmi – entusiasmi di plastica, salvo che lo smaltimento è rapido e poi non se ne parla più – è altrettanto vero che esistono antipatie ataviche e durature, mai del tutto chiarite o chiaribili. Uno di questi moti si abbatte, pressoché sempre, senza possibilità di errore, sulla figura di Kenneth Branagh, attore e regista dotato di talento raffinato, sulle scene, che calca fin da giovanissimo, come al cinema, dove più volte ha trasposto Shakespeare. È infatti innegabile che, a dirla con James Joyce, Kenneth Branagh, in virtù di formazione ed innati talenti, sia uno di quegli squilibrati per cui il Bardo è il preferito terreno di caccia.

Mai sazio di tributi o di lodi né lanciato verso il traguardo, da più parti agognato, della facile ricompensa in premi o denaro, Kenneth Branagh, che resti attore o che voglia farsi regista, che permetta alla voce di esplodere nella perfezione ritmica del pentametro giambico o si chiuda nell’assertiva riflessione sulle umane miserie, sfida la stasi dell’appagamento e si getta in imprese ardue e fortemente personali. 

Kenneth Branagh in Frankenstein (1994)

È il caso del claustrofobico jeux de massacre, Sleuth, come pure della trasposizione filmica dell’opera mozartiana, Il flauto magico, tradotta in inglese, per l’occasione, dall’amico di sempre Stephen Fry. Lo fu, diversi anni orsono, l’eccesso magniloquente del suo Frankenstein: fedele fino alla maniacalità al romanzo di Mary Shelley, ridondante e barocco nella composizione formale, il film si fregia della qualità, non trascurabile, di aver restituito allo stereotipo mostruoso della tradizione cinematografica lo status, etimologico ed etico, di creatura.

Ma vorrei ancora aggiungere, se di sfida si può parlare, discorrendo di baumaniana liquidità, che sia stato un azzardo non da poco quello di imbarcarsi nella realizzazione di un blockbuster come Thor, simpaticamente citato in Belfast, almeno nella sua versione cartacea. Prodotto fumettistico, targato Marvel Comics, nel quale il merchandising e l’impatto consumistico prevalgono, per statuto, sull’artisticità dell’esito cinematografico, la storia del figlio di Odino e di Loki, suo fratello, maestro d’inganno e di sotterfugio, poteva rappresentare un danaroso diversivo per l’attore/regista di Belfast. Così non è stato, non lo è mai con Kenneth Branagh, che si libra, senza temere il tonfo, dal film di cassetta al lavoro di cesello autoriale; o, per essere più precisi, riuscendo per magia a far compenetrare un aspetto nell’altro, forte di una formazione classica, che emerge senza bisogno di sottolineature enfatiche, e di una naturale predisposizione all’equilibrio espressivo, capacità che sovente gli viene contestata, imputandogli una megalomania di cui non c’è traccia nei suoi lavori. Sempre che non sia una colpa quella di avere talento.

Kenneth Branagh sul set di Thor – Marvel Studios

In Inghilterra, da sempre poco benigna con i frutti della terra di Bobby Sands, la ragione di questa leggenda metropolitana risiede forse in un lavoro autobiografico giovanile – si intitola appunto The Beginning – visto come un prematuro autoincensamento, ma figlio in realtà di una visione assai più pragmatica delle faccende del mondo: «At twentyeight, the chances of really knowing something are slim, and the possibility of losing what grasp you do have, great. So why write this? Money.» [«A ventotto anni le possibilità di conoscere veramente qualcosa sono esigue, e la probabilità che ci sfugga di mano ciò che si possiede molto alta. Dunque, perché scrivere questa (autobiografia)? Soldi.»] Soldi non per se stesso, ma per la compagnia che all’epoca presiedeva e che aveva fondato con il collega David Parfitt, la Renaissance Theatre Company. Semplice, no? 

Eppure la nomea di narciso permane tutt’oggi, inscalfibile. Semplice e dichiarato, come quel patto narrativo che Kenneth Branagh stipula con lo spettatore, conscio che ci sia bisogno di essere sinceri se si vuole giocare con la menzogna. Il paradosso è solo apparente. Lo appuriamo persino nei due lavori tratti dai celebri gialli di Agatha Christie: Assassinio sull’Orient Express e Assassinio sul Nilo

Si tratta, come l’incursione nel mondo Marvel, come Artemis Fowl (che a me valse la settimana di prova su Disney +: ah, l’amore!), di lavori confezionati secondo gli stilemi di mamma Disney. Eppure… eppure l’apporto di Branagh non è meramente strumentale e la sua poetica umanistica continua a sentirsi forte e chiara; essa risuona quando Hercule Poirot se ne va come Charlot alla fine di Tempi moderni, di spalle, senza la sua monella, con una specie di bombetta in testa e i piedi lievemente divaricati, come se potesse precorrere gli esiti della storia. Ma il mondo che l’autore conosce si interseca con quello che può conoscere il personaggio e l’addio è dunque appena malinconico, solitario, di fianco a un manufatto – il treno a vapore – destinato all’obsolescenza come lui (?), come tutti noi (?), come le speranze di una rinascita (qui non uso alcun punto interrogativo: la cronaca non me lo consente). 

Dove potrebbe dunque, a partire da un ending così poco disneyano, cominciare l’avventura che sarà egiziana? In mezzo alla terra, in mezzo alla guerra – irrilevante la consecutio, la guerra, nella fattispecie, rileva in quanto tale, in quanto guerra – in mezzo all’argilla, parafrasando Antonio in “Antonio e Cleopatra”. Branagh non ci chiede di credere alle prodezze d’intuito di Poirot o alla verosimiglianza di quell’indagine. Nel suo patto con noi c’è scritto altro, c’è scritto di fidarci della nostra umanità e, di riflesso, della sua, di quel che rimane di entrambe

Questa è Belfast

Ed è così che si arriva a Belfast, un’opera che spalanca gli occhi. Ken abbraccia, come sempre, la scelta più sincera, che è anche la meno facile, ovvero quella di non restare attaccato all’agiografia cinematografica (imperdonabile, nel caso dell’autobiografia). Agisce secondo l’approccio predicato da Italo Calvino nella lettera a Germana Pescio Bottino, datata 9 giugno 1964: «[…] dati biografici non ne do, o li do falsi […] Ma non le dirò mai la verità, di questo può star sicura.» E ce lo rivela a partire dalla ripresa dall’alto, che apre il film: questa è Belfast

Il regista avrebbe potuto soffermarsi su una moltitudine di monumenti e palazzi, ma fa delle scelte precise e significative, una in particolare. A un certo punto infatti la camera si avvicina a una scultura della serie Eco (di Marc Didou; ne esiste una simile a Torino), posta sul piazzale antistante la biblioteca McClay della Queen’s University. Ciò che colpisce, in particolare in raffronto alla statua torinese, è il disfacimento della seconda testa, quella rifratta dal liquido (come se) e che dovrebbe sostenere la prima. 

Sta occorrendo una specie di dissoluzione, con gli arti monchi, la bocca ancora spalancata, ma un’arrendevolezza che si percepisce e che pare precedere la stasi; un uomo che sta smarrendo se stesso o solo, in fondo, una rappresentazione dello smarrimento, della perdita: la verità e la finzione; la scelta, non una biforcazione assoluta tra la vita e l’oblio eterno, checché ne dica il pastore wellesiano, un infernale Quinlan che inveisce contro i fedeli: «Protestants, you will die! Agonizingly! And where will you go when you shuffle off this pestilential mortal coil? […] A fork in the road. […] And I ask you here and now: which road will you take?». La premessa all’invettiva non può, tra l’altro, non ricordarci un verso del più famoso soliloquio del teatro occidentale: «When we have shuffled off this mortal coil,/ Must give us pause: there’s the respect/ That makes calamity of so long life […]».

Sta di fatto che se l’installazione torinese di Didou rimanda a Munch, qui a Belfast siamo, come umore prevalente, più dalle parti dell’”Uomo addormentato” di Francis Bacon: l’impotenza programmatica (è un sonno o una morte? Magari una morte suicidaria), la resa – forse – definitiva. Ecco il patto, o qualcosa che gli assomiglia: l’impudicizia artistica della pretesa di verità corrisponde anche, e soprattutto, a una mancanza di pudore etico nel racconto della ricerca della morte, di una morte autoinflitta. 

Jude Hill in Belfast (poster)

Subito dopo Branagh ribalta le aspettative, o meglio, ci ricorda che non dobbiamo perdere la nostra umanità, e ci conduce in una Belfast immaginaria, immaginata da un bambino, che è lo stesso Branagh, ma è anche tutti i bambini testimoni di guerra, in Irlanda del Nord e non solo. La risultante di ciò che potrebbe essere un banale simbolo diviene altro proprio in virtù dell’aggancio biografico: non il bambino tipo, non il genitore tipo, con tanto di retorica pelosa sugli uni, dotati di sentimenti solo ameni, e sugli altri, capaci di una pietas placentare, lascito mirabile della procreazione. 

No, Buddy è abbastanza Ken da poter essere, nella finzione cinematografica, unicamente se stesso. Ci possiamo divertire con le corrispondenze e le dissonanze, anche se alla fine resta un gioco un po’ specioso. C’è di sicuro, ad accomunarli, il tifo per il Tottenham Hotspur, il più solido trait d’union tra il protagonista e l’Inghilterra. Come c’è – e ciò emerge da dichiarazioni passate dello stesso regista – un forte timore comunicativo, la paura di perdersi nella non comprensione. Confessava Branagh a Noreen Taylor (“The Times”, 15 marzo 2000): «I feel Irish. I don’t think you can take Belfast out of the boy. I came from the kind of street where everyone knew everyone else […] I was nine and I remember quickly adopting an English accent for school, while keeping the Irish one for home».

Pare esserci pure, ma questa è più una suggestione, qualche omaggio a passati lavori, piccole cose, poco note da noi. Penso per esempio al conflittuale personaggio di Billy (Colin Morgan è la dimostrazione che non esistono piccoli ruoli, ma solo piccoli attori: bravissimo), che rimanda a quello del dramma del nord-irlandese Graham Reid, Too Late to Talk to Billy, interpretato nel 1982, per la BBC, proprio da Branagh, fresco di diploma alla RADA.

Sir Kenneth dribbla l’inciampo dell’iperrealismo; applica piuttosto la lezione sullo straniamento di Bertolt Brecht: in questo senso si colloca la scelta di una Belfast set cinematografico – finta per forza, finta per statuto morale – e del bianco e nero, tutt’altro che fine a se stesso o alla moda. È dunque più vicino alle istanze di Dogville (e in un certo senso a quelle di Jojo Rabbit oppure a quelle del non così riuscito Antebellum) che a Roma, di Alfonso Cuarón, che proprio nello sforzo rievocativo presentava i maggiori limiti. 

Attraverso il cromatismo – splendido l’uso che ne fa in rapporto alla sala cinematografica e a quella teatrale, con A Christmas Carol che investe lo sguardo in b/n di colore, di nuovo senso – e la stilizzazione espressiva, Branagh innesta i temi della compassione e della nostalgia. Se siamo dalle parti del «to be or not to be» e il discorso del pastore ce lo fa pensare, soltanto la traslazione in pueritia permette di guardare l’orrore senza farne pornografia. Buddy disegna le strade e invoca per sé e per la sua famiglia una direzione che porti in salvo (e che altrimenti potrebbe culminare con un «no traveller returns»), il fratello maggiore, Will, consegna bottiglie di latte, ignaro dapprima che saranno utilizzate per fabbricare le molotov. 

Se il citazionismo è linfa e non compiacimento – Mezzogiorno di fuoco che “scavalla il campo” di una città che appare come il lontano West –, anche l’ironia, spiazzante, crudele – “It’s biological!” – ci aiuta a non sprofondare nell’enfasi smielata. Branagh può raccontare un dolore estremo, quello di un conflitto sanguinoso e fratricida, proprio sotto le finestre di casa, dello sradicamento forzato, senza indulgere in una rappresentazione pietosa. 

Judi Dench, Jude Hill, Ciarán Hinds in Belfast

Finanche il nonno, il magnifico Ciarán Hinds, al quale tocca la battuta più tragica, poiché pregna della consapevolezza del futuro, si ferma prima dell’epilogo, quando cita Pasqua, 1916, di William Butler Yeats: «Un sacrificio troppo lungo/ Può fare una pietra del cuore». La poesia, dedicata all’Éirí Amach na Cásca, ovvero all’Easter Rising, si conclude con un verso tristemente profetico:  «È nata una bellezza terribile».

Lo sa bene la nonna (Judi Dench, ogni lode impallidisce di fronte al suo valore), senza nome, non a caso, che sul finale, quando compare in sovraimpressione la prima dedica, infrange per un attimo il punto di vista, che è sempre stato quello di Buddy, e focalizza su di sé il racconto: in quei pochi istanti, lei diviene tutte le nonne di tutti i bambini che sono stati costretti ad abbandonare Belfast. L’adattamento italiano traduce con “ti voglio bene, Buddy” un più calzante “I love you, son”. Non è più solo Buddy il destinatario dell’augurio di non voltarsi indietro, pronunciato sguardo in macchina. 

Anche Kenneth Branagh lo sa bene, ma preferisce cristallizzare la bellezza autentica, quel poco che c’è rimasto, per chi è andato, per chi è rimasto e per chi si è perso, facendo fede al proposito di Orazio: raccontare affinché mai più possano avvenire simili sventure causate da complotti o errori.E se basta accendere un tg per accorgerci che abbiamo fallito, vorrà dire che racconteremo ancora e ancora, come fa Branagh che è uno sciocco come noi. E il suo talento sopravvivrà a tutto (sto parafrasando l’elegia di Auden, dedicata a Yeats: «Eri sciocco come noi: il tuo talento sopravvisse a tutto»).

— Ilaria Mainardi

Immagine in alto: Kelvin Boyes / Press Eye@BelfastMovie