WolfWalkers, animazione Made in Ireland

WolfWalkers, animazione Made in Ireland - IRISHFILMFESTA blog

A Kilkenny, in Irlanda, ha sede uno studio d’animazione che in poco più di dieci anni si è imposto all’attenzione internazionale, conquistando quattro candidature agli Oscar e l’entusiasmo degli appassionati: Cartoon Saloon inizia la sua attività già nel 1999, anche se i primi progetti (cartoline digitali e spot pubblicitari) erano lontanissimi dai lungometraggi ispirati al folklore locale che ce li hanno fatti conoscere.

The Secret of Kells (2009), Song of the Sea (2014) e The Breadwinner (2017), così come i cortometraggi Somewhere Down the Line (2014), The Ledge End of Phil (2014) e Late Afternoon (2017), sono tutti passati all’IRISH FILM FESTA, e Nora Twomey, co-fondatrice dello studio insieme a Tomm Moore e Paul Young, ha tenuto per noi una masterclass alla Casa del Cinema nel 2013.

L’animazione è uno dei settori più vivaci e in crescita dell’industria cinematografica irlandese, a sostegno del quale l’ente pubblico Screen Ireland ha annunciato di recente nuovi investimenti per 1 milione di euro.

WolfWalkers: la storia e il folklore

Dopo una distribuzione in sala limitata a pochi paesi, sulla piattaforma di streaming Apple TV+ è disponibile da qualche settimana l’ultimo film prodotto da Cartoon Saloon, in collaborazione con la lussemburghese Mélusine Productions, e per la regia di Tomm Moore e Ross Stewart: WolfWalkers, un fantasy d’ispirazione storica ambientato proprio a Kilkenny nel 1650, quando Oliver Cromwell invade l’Irlanda e cacciatori arrivati dall’Inghilterra hanno l’incarico di sterminare i branchi di lupi dell’isola per sfruttarne i terreni.

Tra Robyn, una ragazzina inglese appena stabilitasi a Kilkenny col padre militare, e la wolfwalker Mebh, una piccola mutaforma capace di trasformarsi in lupo che vive con la madre e il branco nella vicina foresta, nasce un’amicizia che stravolgerà le sorti della città.

Cartoon Saloon: l’animazione vista dall’Irlanda

L’acquisizione di Apple TV+ e la relativa uscita solo-online ha reso WolfWalkers visibile simultaneamente in tutto il mondo e ne ha allargato la platea come mai prima d’ora per i film di Cartoon Saloon, ponendolo a fianco dei prodotti d’animazione presenti su piattaforme similari e rendendo così più evidenti le peculiarità dello studio irlandese. Peculiarità che non sono solo tecniche: limitarsi a contrapporre l’animazione a mano di Cartoon Saloon alla CGI dilagante nell’animazione occidentale, in particolare quella delle grandi società statunitensi, sarebbe sì corretto, ma anche semplicistico.

WolfWalkers è un film che dialoga con il settore dell’animazione contemporanea e dice la sua in modo preciso, perché ha alle spalle persone con una solida cultura artistica, ma anche storica e socio-politica, che non possono e non vogliono prescindere dalle proprie origini geografiche (anche se a Cartoon Saloon lavorano artisti provenienti da tutto il mondo, Italia compresa).

La narrazione: il conflitto e il ruolo del cattivo

Nella sceneggiatura di Will Collins troviamo qualcosa che tanti film animati di questi anni – almeno nel comparto mainstream – stanno perdendo di vista: il conflitto messo in scena non in ottica psicologica ma sociale. Un conflitto concreto, che identifica un nemico e non riduce tutto agli ostacoli interiori che il protagonista della storia deve superare per portare a compimento la propria identità: WolfWalkers contiene riferimenti storici al colonialismo inglese (al cattivo ci si riferisce come “Lord Protector”, vero appellativo di Cromwell) e una condanna esplicita della religione, e mostra come la lotta e la possibilità di liberazione non possano essere individuali ma solo collettive.

Pensiamo a uno dei personaggi che più hanno plasmato l’immaginario globale dei giovanissimi spettatori di questo decennio, ovvero Elsa dei disneyani Frozen e Frozen II, che il suo conflitto lo risolve cantando a se stessa e auto-consacrando la propria unicità (Show Yourself): la figura della principessa che si salva da sola può rappresentare un modello positivo quando si pone come alternativa a dinamiche di genere ormai superate, ma ha la grave mancanza di esaltare un individualismo – tipicamente americano – a scapito di una visione comunitaria e di una presa di coscienza collettiva.

L’equivoco in cui spesso si cade è che depotenziare il ruolo dei cattivi nelle narrazioni popolari, come sono appunto i grandi film d’animazione, non ha come risultato solo quello di ripensare la visione manichea del bene e del male, ma anche di rendere meno riconoscibili le ingiustizie, e di riflesso scaricare ogni responsabilità, di riuscita o di fallimento, sul singolo e sulle sue capacità. La piccola Mebh di WolfWalkers invece, in un momento cruciale, si rivolge all’amica Robyn e al branco dicendo: «Non sono abbastanza forte, ho bisogno d’aiuto».

Un’animazione mutaforma: il disegno che cambia tratto e lo split screen

Nell’estetica di WolfWalkers spicca la contrapposizione tra il tratto grafico della città, dove vive l’insofferente Robyn, e quello della natura, spazio libero e accogliente per Mebh e il suo branco. Agli inglesi che occupano Kilkenny sono associati i forti contrasti dei colori primari blu e rosso, mentre la foresta irlandese assume dolci sfumature autunnali di verde e arancione; la città è disegnata come se fosse una xilografia bidimensionale, viceversa gli alberi e le foglie sembrano schizzati con una matita morbida.

Un dualismo netto ma non impenetrabile: la mobilità nel disegno dei corpi, le differenze di tratto che coesistono all’interno di una stessa scena e l’uso dello split screen esprimono con immediatezza la possibilità del cambiamento. Quando sullo schermo vediamo contemporaneamente Robyn obbligata a lavorare nel grigiore del castello e Mebh sdraiata su un ramo, ciascuna disegnata col tratto che le appartiene, capiamo in modo intuitivo che, per smettere di soffrire, a Robyn basterebbe passare dall’altra parte.

E alla fine lo capisce anche Robyn: accettare di vivere nell’infelicità e nella paura è un errore («All this is wrong»), ma a questo errore si può porre rimedio. Si cambia forma (nella scena della ribellione al padre, la figura di Robyn si fa vibrante e prende possesso del quadro), si cambia sguardo (il mondo visto dagli occhi dei lupi è completamente diverso, per colori e prospettiva ottica), si combatte insieme contro gli oppressori (l’Irish Times ha definito il film un «Inglorious Basterds per tutta la famiglia») e si sceglie la libertà.

Così come le sue protagoniste, WolfWalkers è un film mutaforma e ci dimostra che se la realtà è sbagliata, possiamo riscriverla. O ridisegnarla.

— Valentina Alfonsi