Tre domande a… Paul Murphy, regista di The Weather Report

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Paul Murphy è il regista e lo sceneggiatore di The Weather Report, uno dei cortometraggi che vedremo in concorso all’Irish Film Festa 2015.

1944. Ted (Edward MacLiam, Run & Jump) e sua moglie Maureen (Marie Ruane) sono i guardiani del faro di Blacksod, nella Contea di Mayo. Un giorno, dopo aver trasmesso le consuete previsioni del tempo, ricevono una misteriosa telefonata. Che sta succedendo?

The Weather Report ha vinto il GFC/RTÉ Short Film Award e ha partecipato a numerosi festival internazionali, tra cui il Galway Film Fleadh, l’IndieCork Film Festival, e i festival del cinema irlandese di Boston e Chicago.

 

Perché hai scelto di raccontare la storia di Ted e Maureen Sweeney?

Amo pensare che esistano persone ‘normali’ improvvisamente travolte da eventi più grandi delle loro stesse vite.
Le cose interessanti accadono spesso sulle linee di confine, e in questo caso ci troviamo addirittura ai confini dell’Europa.

 

Come hai scelto i due protagonisti, Edward MacLiam e Marie Ruane?

Trovare l’attrice per Maureen è stato semplice: ho visto Marie Ruane nel cortometraggio Foxes e ho capito subito che sarebbe stata perfetta nel ruolo. Sono felicissimo che abbia accettato. Ted invece è stato più difficile, c’erano tanti attori irlandesi che avrebbero potuto interpretarlo. Sono contento di aver scelto Ed, è stato un vero piacere lavorare con lui e Marie.

 

Avete girato proprio al faro di Blacksod?

Sì, proprio al faro di Blacksod, era importante per me girare nei veri luoghi della storia. Tra l’altro Blacksod è l’unico faro in Gran Bretagna e in Irlanda ad avere un tetto quadrato. È un posto straordinariamente isolato, persino per l’ovest del Paese, e così è relativamente semplice girarvi un film ambientato negli anni 40.

 

L’Irish Film Festa proporrà The Weather Report venerdì 27 marzo alle 21.00 (abbinato alla proiezione di Gold) e sabato 28 marzo alle 15.30 nel secondo programma di cortometraggi [qui il calendario completo].

Tre domande a… Ruth Meehan, regista di The Measure of a Man

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Ruth Meehan è la regista e sceneggiatrice di The Measure of a Man, uno dei cortometraggi in concorso all’Irish Film Festa 2015.

Jay Brady (Andrew Simpson, che interpretava l’amante adolescente di Cate Blanchett in Diario di uno scandalo) è un giovane uomo che cerca di superare la morte del padre, mentre si fa fare da un sarto (Ronan Wilmot) il suo primo abito su misura.

Ruth ci ha parlato del significato catartico del cortometraggio, ispirato a una storia vera.

 

Com’è stata sviluppata la sceneggiatura?

Ho scritto la sceneggiatura con mio fratello Kenneth: ad ispirarci è stata una storia raccontata dal nostro amici Gary Henderson. Gary aveva perso da poco suo padre e ci disse di aver ordinato un vestito su misura proprio da quello che era stato il sarto del padre. Per lui era stata un’esperienza catartica che l’aveva fatto sentire più vicino a suo padre.

Questo cortometraggio è stato un dono, di quelli che ti prendono per mano e ti mostrano la direzione. È stato, ed è tuttora, per tutti noi un’opera molto personale, catartica e capace di guarire il dolore. Uno dei ricordi più cari che ho conservato da un periodo davvero buio.

 

Come avete scelto gli attori Andrew Simpson e Ronan Wilmot?

In quel periodo stavo lavorando su un altro progetto con il produttore Tony Deegan: lui, a sua volta, aveva appena finito di lavorare con Andrew Simpson e ci disse quanto fosse brillante. Andrew era appena entrato nel cast di una grossa serie BBC, The Life and Adventures of Nick Nickleby, ma la storia di The Measure of Man riuscì a toccare anche lui, che aveva appena perso un caro amico. È una fortuna che abbia fatto in tempo a prendere parte al nostro corto.

Anche la scelta di Ronan Wilmot nasce dal suggerimento di un amico. Aveva la sensibilità giusta per interpretare il nostro sarto, e poi è bravissimo.

 

Dov’è stato girato The Measure of a Man?

Louis e Adrian Copeland sono due dei sarti più noti a Dublino, e siamo stati molto fortunati ad avere la possibilità di entrare nel loro laboratorio. I locali erano stati ristrutturati da poco, così ci hanno presentati a Denis Darcy, che stava per andare in pensione, e il cui studio sarebbe stato il sogno di ogni designer. Denis aveva un abito da finire con urgenza proprio nel giorno delle riprese, così ha continuato a lavorare mentre noi eravamo lì. Alcune inquadrature mostrano le sue mani mentre tagliano la stoffa, anche se ormai non sapremmo più distinguerle!

 
Un ringraziamento speciale alla produttrice Tamsin Lyons

 

Tre domande a… Louise Ní Fhiannachta, regista di Rúbaí

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Tra i cortometraggi in concorso all’Irish Film Festa 2015 ce n’è uno girato in lingua gaelica irlandese: si tratta di Rúbaí, diretto da Louise Ní Fhiannachta e prodotto nell’ambito di Gearrscannáin, il programma di finanziamento dell’Irish Film Board specificamente dedicato ai corti in gaelico.

Mentre i suoi compagni di classe si preparano a ricevere la Prima Comunione, Rúbaí, una bambina di otto anni (interpretata dalla piccola esordiente Doireann Ní Fhoighil), dichiara di essere atea e si rifiuta di partecipare.

Louise Ní Fhiannachta ci ha parlato delle bellissime caratteristiche della lingua irlandese e di come è stato dirigere un’attrice così giovane.

 

Rúbaí è l’unico tra i corti che presentiamo quest’anno ad essere girato in gaelico: perché hai scelto di usare questa lingua?

La sceneggiatura è stata scritta in gaelico e a me, che sono di madrelingua gaelica, è parso naturale mantenerne la forma originaria. An Ghaeilge rappresenta una parte fondamentale della mia identità e delle persone che hanno lavorato con me su Rúbaí, penso che questo si percepisca guardando il film. Il gaelico è una lingua indiretta che presenta splendide caratteristiche e sfumature.

Naturalmente la bellezza del cinema sta nel suo essere un linguaggio universale che chiunque può comprendere: malgrado le differenze culturali, le emozioni (speranza, paura, felicità…) appartengono allo stesso modo a tutti gli esseri umani.

 

Come hai lavorato sulla sceneggiatura di Antoin Beag Ó Colla?

Sono stata immediatamente catturata dal personaggio di Rúbaí, da quando ho letto la prima stesura. Rúbaí, cattolica, non vuole fare la Prima Communione ed è invece affascinata dalla teoria dell’evoluzione di Darwin. Questa bambina così indipendente e sensibile mi ha conquistato il cuore e ho capito che dovevo accompagnarla nel suo viaggio, mettere in discussione e comprendere le sue ragioni. Nella sceneggiatura di Antoin era già presente un tono umoristico che anch’io ho cercato di mantenere.

Ci siamo poi resi conto di come alcuni elementi non fossero presenti nella storia, ad esempio i motivi che spingono Rúbaí a diventare atea non venivano spiegati chiaramente.

Le prime versioni della sceneggiatura contenevano anche molti più dialoghi: sarebbe stato difficile trovare un’attrice di otto anni in grado di gestire battute così lunghe e al tempo stesso garantire un’ottima performance. Abbiamo così preferito snellire il testo tramite un processo molto rigoroso, concentrandoci sulle azioni e le emozioni piuttosto che su grossi pezzi di dialogo. Credo abbiamo funzionato!

 

Come hai scelto Doireann Ní Fhoighil per il ruolo di Rúbaí?

Tre mesi prima di iniziare le riprese, abbiamo fatto dei provini a 43 bambine e tutte mi hanno stupita con il loro talento. Ne abbiamo selezionate dieci alle quali abbiamo poi proposto un laboratorio di recitazione: per loro è stato utile e per me era bello vederle sciogliersi e acquisire fiducia in se stesse nell’arco di poche ore.

Trovare la mia Rúbaí in Doireann Ní Fhoighil è stato un dono. Sono stata immediatamente conquistata dalla sua intelligenza, dal suo spirito: è adorabile. La sua capacità di comprendere la storia e la fiducia che ha riposto in me (insieme alla sua famiglia) sono state fondamentali.

Le restanti nove bambine hanno invece interpretato le compagne di classe di Rúbaí, sono state tutte bravissime. A causa del budget ristretto abbiamo girato in appena tre giorni: era imperativo far sì che l’aspetto visivo del cortometraggio restasse semplice. Per me al primo posto c’è sempre la recitazione: sono una regista di attori! Aver avuto la possibilità di comunicare la mia visione e collaborare con una troupe così creativa e che non mi ha mai fatto mancare il proprio impegno, è qualcosa che mi riempie di gratitudine.

 

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Doireann Ní Fhoighil e Louise Ní Fhiannachta

 

Tre domande a… Anna Rodgers, regista di Novena

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Novena di Anna Rodgers è l’unico documentario tra i cortometraggi selezionati per il concorso di Irish Film Festa 2015.

Quando una donna della sua parrocchia, a Dundalk, ha parlato a Padre Michael Cusack di come il proprio figlio si sentisse rifiutato dalla comunità cattolica in quanto omosessuale, il sacerdote ha deciso di invitare due membri della comunitù LGBT, Kay Ferriter e Stephen Vaughan, a tenere un discorso durante una messa nel periodo della Novena.

«Quando abbiamo saputo di questo avvenimento, abbiamo subito deciso di documentarlo, pur non avendo una vera e propria produzione alle spalle», spiega Anna Rodgers.

 

Come e perché hai deciso di filmare le testimonianze di Kay Ferriter e Stephen Vaughan, e di usarle per un film?

Stephen Vaughan mi ha contattata con un paio di settimane d’anticipo: ci conoscevamo già perché lui è sposato con un collega di lavoro di mia madre e aveva già visto un mio documentario dedicato alle tematiche LGBT. All’inizio pensavamo di limitarci a filmare il discorso, ma poi ci siamo resi conto di quanto fosse significativo, per Stephen e Kay, aver ricevuto questo invito a parlare durante la Novena. Prima di allora non era mai accaduta una cosa del genere in Irlanda, così ho capito che valeva la pena di coinvolgere una troupe di professionisti. A quel punto non ero nemmeno sicura di farne poi un film ma sentivo che stava per accadere qualcosa di importante, e che dovevamo documentarlo.

 

Perché hai scelto la forma del cortometraggio documentario?

Sono una documentarista, per me è stato un approccio naturale. Avrei potuto registrare solo l’audio e tirarne fuori qualcosa per la radio, ma così tanti aspetti importanti di questa esperienza sarebbero andati perduti. Abbiamo cercato di rendere al meglio l’atmosfera di quel giorno, compresi i non detti. I cortometraggi documentari possono avere un forte impatto. In passato ho sperimentato anche la forma lunga, ma amo ancora raccontare storie brevi, le regole sono meno rigide e le aspettative nei confronti della narrazione sono molto diverse rispetto al lungometraggio.

 

Qual è stata la risposta del pubblico?

In Irlanda abbiamo ottenuto un riscontro straordinariamente positivo e il film ha anche vinto dei premi, ne siamo davvero grati. La realizzazione di Novena è stata resa possibile da una campagna di crowdfunding organizzata attraverso il sito Fund It: il supporto ricevuto dalla gente è stato enorme. Il film è stato poi trasmesso da RTÉ, la nostra tv pubblica, ed è stato proiettato in occasione di diversi festival ed eventi. Siamo riusciti a raggiungere un pubblico che va ben oltre la comunità LGBT, e questo è molto importante. So che a Stephen, Kay e Padre Michael Cusack sono giunte parole di lode per quello che hanno fatto e sono felice che, attraverso il film, abbiamo potuto mostrarlo anche a chi quel giorno non era presente.

 

Tre domande a… Steve Woods, regista di Keeping Time

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Steve Woods è il regista di Keeping Time, uno dei dieci cortometraggi in live action selezionati per la sezione competitiva dell’Irish Film Festa 2015.

Keeping Time è un originale progetto di cortometraggio basato sulla danza nel quale la storia non viene raccontata con le parole ma attraverso la musica e i movimenti: il ballerino e coreografo kenyano Fernando Anuang’a interpreta un operaio di una centrale elettrica che incontra degli antichi guerrieri Maasai e danza con loro mescolando i passi tradizionali alla danza moderna.

Steve ci ha raccontato del suo lavoro con Fernando Anuang’a spiegandoci cosa vuol dire girare un film sulla danza.

 

Da dove nasce l’idea per questa storia?

Sono sempre stato appassionato di storia. La storia può essere un racconto con un inizio, una parte centrale e una fine, proprio come un libro. Allo stesso tempo, però, la storia fa parte del presente. E ci sono persone il cui stile di vita appare ‘storico’, antico, agli occhi degli europei contemporanei. Proprio come i Maasai del mio cortometraggio. L’Irlanda è piena di elementi che ci ricordano il nostro passato. La storia in Irlanda è viva.

 

Come hai lavorato a fianco del coreografo Fernando Anuang’a? E la musica?

Lavorare con un coreografo è interessante. È come lavorare con un attore che è contemporaneamente sceneggiatore. Per alcuni registi è complicato girare film sulla danza ma io sono stato fortunato: forse perché mi preparo molto bene sul lavoro dei coreografi prima di collaborare con loro e so esattamente cosa chiedere ai danzatori perché li ho già visti farlo sul palcoscenico. Faccio anche molte prove con i coreografi spiegando loro dove e perché ho intenzione di posizionare la macchina da presa. Cerco innanzitutto di stabilire un rapporto di fiducia.

Per quanto riguarda il compositore, Ray Harman, una volta ha lavorato gratis per un mio film, Eternal, e il risultato è stato ottimo. Così gli avevo promesso che, se fossi riuscito ad ottenere un budget per un film basato sulla danza, lo avrei richiamato e questa volta lo avrei pagato! Amo molto il suo lavoro, Ray riesce davvero a ‘cogliere’ il film e i suoi punti di tensione. Sa dargli il giusto ritmo. Mi piace così tanto la sua musica che nel corto la ascoltiamo dall’inizio alla fine.

Ho scelto i Maasai proprio perché loro non usano strumenti musicali, nemmeno le percussioni. Così il compositore poteva davvero avere campo libero.

 

Dove è stato girato Keeping Time?

Le riprese di Keeping Time si sono svolte in due luoghi diversi, in Irlanda. A Loughcrew c’è questo monumento che ha circa 5.000 anni: è più vecchio delle piramidi e si tratta probabilmente della più antica costruzione coperta del mondo. L’altra location è la centrale elettrica che brucia la torba locale per ottenere energia. Abbiamo così due opposti, l’antico e il moderno. Che è proprio il tema del film.

 
https://vimeo.com/102068361

Tre domande a… Ciarán Dooley, regista di I’ve Been a Sweeper

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Ciarán Dooley è il giovane sceneggiatore e regista di I’ve Been a Sweeper, uno dei dieci cortometraggi in live action selezionati per la sezione competitiva dell’Irish Film Festa 2015.

Il corto, prodotto grazie a una campagna di crowdfunding, segue il protagonista — «un personaggio surreale» — durante il suo ultimo giorno di vita: lo Sweeper ci racconta così come l’attività di spazzare i pavimenti abbia influenzato la sua esistenza fin dall’infanzia.

David Rawle, il ragazzino che interpreta il giovane Sweeper nella prima parte del corto, è anche il protagonista della serie tv Moone Boy e il doppiatore del piccolo Ben in Song of the Sea di Tomm Moore.

 

Perché hai scelto la voce narrante in prima persona?

Perché volevo offrire al pubblico uno sguardo diretto all’interno della mente del protagonista, e volevo che l’aspetto narrativo e quello visivo andassero di pari passo: in questo modo abbiamo l’impressione di ascoltare i pensieri dello Sweeper in tempo reale.

 

La polvere e la luce sono elementi chiave in questa storia: come avete lavorato sul sonoro e sulla fotografia?

Trovare il materiale giusto per ricreare la polvere sullo schermo ha richiesto quattro settimane: abbiamo provato a usare vera polvere, piume, argilla, farina, cenere, fibre sintetiche e di garza. Alla fine ciò che funzionava meglio erano le particelle rilasciate nell’aria scuotendo un tessuto di canapa. La canapa è più spessa della polvere se la guardiamo a occhio nudo, ma vista attraverso la macchina da presa era visivamente molto efficace.

Per quanto riguarda il sonoro, abbiamo usato molti suoni pre-registrati. L’atto di spazzare i pavimenti doveva possedere un suono intimo e quasi surreale, così lo abbiamo aggiunto successivamente.

Diversi pub nei quali abbiamo girato sono situati nelle strade più rumorose e trafficate di Dublino, quindi abbiamo registrato i suoni in un altro luogo e poi li abbiamo sovrapposti alle immagini in post-produzione. Il sound design è stato un fattore importantissimo nel definire l’atmosfera del corto.

 

Come hai scelto Eamon Morrissey per il ruolo dello Sweeper?

Sono sempre stato un fan di Eamon, e appena la produzione è iniziata lui è stato il primo e unico attore al quale abbiamo proposto di interpretare lo Sweeper. Abbiamo scritto al suo agente e poco dopo ci siamo incontrati. Ha accettato subito. È stata una bellissima esperienza lavorare con lui: ha saputo portare tanto di sé nel ruolo, ha incarnato il personaggio alla perfezione. Non avrei potuto immaginare nessun altro!

 
https://vimeo.com/113326576

Tre domande a… Stuart Graham, regista di The Good Word

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The Good Word è uno dei cortometraggi selezionati per l’edizione 2015 di Irish Film Festa e segna il debutto alla regia dell’attore Stuart Graham.

Stuart era al festival l’anno scorso per la proiezione di Volkswagen Joe di Brian Deane, premiato come miglior cortometraggio della sezione live action.

Nel cast di The Good Word troviamo Úna Kavanagh, Conleth Hill, e Paul Kennedy (il regista di Made in Belfast, anche questo visto all’Irish Film Festa 2014 — Paul e Stuart sono i co-fondatori della casa di produzione KGB Screen) nei panni del misterioso Ivan Cutler, che predica la parola di Dio nelle townland irlandesi degli anni 50. La sceneggiatura è dello scrittore giallista Stuart Neville.

Stuart Graham ci ha parlato delle sue scelta da regista e di come The Good Word sarà presto sviluppato in un lungometraggio.

 

Anche se arriviamo a capirne pienamente il senso solo alla fine, il dialogo tra i tre personaggi occupa la maggior parte del cortometraggio: come hai lavorato sulla sceneggiatura di Stuart Neville?

Un paio d’anni fa ho stilato una lista degli scrittori nordirlandesi con i quali mi sarebbe piaciuto lavorare. Stuart Neville era in cima a quella lista e, quando ci siamo incontrati per la prima volta, abbiamo discusso soprattutto del suo romanzo Ratlines, che stiamo adattando per la televisione.

The Good Word è nato come prodotto collaterale di questa nostra prima, proficua conversazione. Quando Stuart mi ha mandato le prime diciotto pagine, la ricchezza dei dialoghi mi ha complito subito come parte di un mondo che conosco molto bene. Mi ha fatto ridere, e mi sono innamorato dei tre personaggi. È stato automatico per me mantenere uno stile di regia semplice, quasi vecchio stile, e lasciare che la forza delle parole sbocciasse grazie ai miei tre meravigliosi attori.

Lavorare con Stuart, su entrambi i progetti, è stata un’esperienza piacevole, appagante, e — è forse la cosa più importante — facile. Stuart comprende in maniera istintiva la qualità filmica del suo stesso lavoro e questo rende il processo di adattamento una vera gioia. Finora, almeno! Non abbiamo ancora finito con The Good Word: la storia continua e vorremmo svilupparla in un lungometraggio. Un piccolo indizio su quel che accadrà si trova alla fine dei titoli di coda.

 

Perché hai scelto di inserire la canzone Beautiful Isle of Somewhere nella colonna sonora?

Beautiful Isle of Somewhere è stata scritta alla fine del 19esimo secolo ma io l’ho conosciuta grazie attraverso un arrangiamento degli anni 50. Così mi è sembrata la scelta giusta. È un inno religioso, e anche in questo si adatta bene all’argomento del corto. Non voglio dire troppo, ma il brano suona volutamente gioioso e puro. E anche se la nostra storia si svolge nel nord-est dell’Irlanda, dal punto di vista tematico potrebbe essere ambientata in qualunque piccola, “bellissima” comunità rurale isolata. Traete voi le conclusioni. In più, è una canzone che mi piace molto! A questo proposito voglio ringraziare Andrew Simon McAllister che ne ha tratto due arrangiamenti fantastici.

 

Dov’è stato girato The Good Word?

Abbiamo girato nella Contea di Antrim, vicino a Ballyclare. La casa appartiene alla famiglia Todd, che è stata così carina da ospitarci. Un grande grazie anche a loro. In realtà vorrei ringraziare chiunque abbia preso parte al corto. Siamo riusciti a fare tanto, pur con risorse e tempi limitati, e non ci saremmo riusciti senza la dedizione, il duro lavoro e il talento di tutte le persone coinvolte.

Tre domande a… Aidan McAteer, regista di Deadly

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Deadly è uno dei cinque cortometraggi animati in concorso all’Irish Film Festa 2015. Scritto e diretto da Aidan McAteer, il corto racconta la storia di Boney, intrappolato in un triste lavoro, e Bridie, un’anziana donna piena di vita: una storia bellissima che parla di vita e di morte.

Deadly è stato prodotto dal Kavaleer Studio nell’ambito di Frameworks, il programma di finanziamento dell’Irish Film Board specificamente dedicato ai cortometraggi d’animazione.

Aidan ci spiega perché ha scelto di raccontare questa storia e in cosa consiste la lavorazione di un cortometraggio animato.

 

Com’è nata l’idea per questa bellissima storia?

L’idea originale viene da una lezione di sceneggiatura che ho seguito alcuni anni fa: inizialmente ruotava intorno a questo personaggio della morte che perde il lavoro. Lo immaginavo cimentarsi in altri lavori, ma tutto si riduceva a uno sketch, e neanche così originale. La storia ha pian piano cambiato direzione quando ho iniziato a vedere il mio protagonista come una persona intrappolata in un lavoro senza sbocchi («dead end job, pun inevitable», dice Aidan, ndr) e l’ho affiancato a Bridie. Ho definito così l’immagine conclusiva del corto e parallelamente ho lavorato sulla parte iniziale, poi con l’aiuto dei membri del mio studio, in particolare della produttrice Shannon George, ho messo a punto un secondo atto della storia che finalmente funzionava.

 

Puoi descriverci brevemente il processo di lavoro sull’animazione, dal disegno dei personaggi alla loro integrazione con gli sfondi?

Proprio come nei film in live action tutto parte dalla sceneggiatura, e mentre ci lavoravo passavo molto tempo anche a disegnare, per cercare di trovare i miei personaggi. Con Boney sono stato veloce, mentre per Bridey c’è voluto un po’ di più. Non è semplice fare character design per un pubblico adulto dal momento che la maggior parte del mio lavoro come animatore si rivolge ai bambini. Jean Maxime Beaupuy, che è a capo del nostro dipartimento d’animazione, mi è stato di grande aiuto.

Completati i concept design e lo script, si può preparare lo storyboard, che consiste in rapidi schizzi a matita delle azioni principali e delle varie inquadrature. A quel punto si monta una prima versione del corto utilizzando una colonna sonora provvisoria. In un film d’animazione questo montaggio preliminare è essenziale: sarebbe troppo costoso, e francamente doloroso, tagliare in seguito dei pezzi finiti. Con John Peavoy, il montatore, ho realizzato circa trenta versioni diverse prima di arrivare a quella definitiva.

Fin qui facciamo quindi ampio uso di carta e matite ma poi, almeno per Deadly, siamo passati al digitale. Era importante per me che il film mantenesse comunque un aspetto naturale, da disegno a mano. A volte il computer rischia di far apparire le cose troppo lisce e asettiche, così il nostro scenografo, Graham Corcoran, e i suoi collaboratori hanno lavorato moltissimo per far sì che gli sfondi sembrassero dipinti a mano e apparissero ricchi di texture, anche se erano stati creati con Photoshop.

Per l’animazione vera e propria abbiamo utilizzato il software Flash: in questa fase, per evitare ancora una volta un effetto meccanico e troppo fluido, la nostra artista Siobhan Twomey ha disegnato su ogni fotogramma, così che le linee restassero sempre vive e mobili. La registrazione delle voci è precedente, quindi gli animatori lavorano direttamente sul sonoro per dar vita alle performance che vediamo sullo schermo. Amber Hennigan, che si occupa del compositing, ha fuso infine le linee, le animazioni e gli sfondi di Deadly, aggiungendovi ulteriori texture e effetti speciali.

 

Brenda Fricker e Peter Coonan sono i doppiatori di Bridey e Boney: come li hai scelti?

Avevo visto Peter Coonan in alcuni cortometraggi e in una serie tv molto popolare in Irlanda, Love/Hate. Ci serviva qualcuno con l’accento di Dublino, ma oltre a questo Peter aveva proprio il tono di voce giusto per Boney, sia perché il triste mietitore è una figura mitica, sia perché il nostro triste mietitore appartiene alla classe lavoratrice, è una persona comune alle prese con i problemi della vita quotidiana.

Per Brenda Fricker ho fatto invece ciò che in genere viene sconsigliato: ho scritto la parte pensando a lei. Facevo fatica a trovare la voce di Bridey e poi ho pensato a Brenda, che ha influenzato profondamente lo sviluppo, anche grafico, del personaggio. Ci ho messo un po’ per convincerla e quando ha accettato ero felicissimo. Brenda è un’attrice fantastica e ha infuso in Bridey calore genuino, sensibilità e umanità. Mi ritengo fortunato di aver avuto al mio fianco due straordinari talenti come Peter e Brenda.

 

Tre domande a… Lee Cronin, regista di Ghost Train

Ghost Train
Lee Cronin è il regista di Ghost Train, uno dei dieci cortometraggi in live action che vedremo in concorso all’Irish Film Festa 2015.

Ghost Train è un horror e racconta la storia di due fratelli, Michael e Peter, che ogni anno compiono un pellegrinaggio alla vecchia giostra dell’orrore dove il loro amico Sam scomparve quando erano ragazzini.

Il corto di Cronin è stato premiato al San Sebastian Horror and Fantasy Film Festival, all’Ithaca International Fantastic Film Festival e al Molins de Rei Horror Film Festival. Uno dei suoi lavori precedenti, Billy & Chuck, è stato presentato al Galway Film Fleadh nel 2011.

 

Com’è nata la sceneggiatura?

Sono sempre stato affascinato da quanto la giostra dell’orrore che si trovava al parco giochi mi spaventasse, quand’ero piccolo. Ripensando alla mia infanzia mi sono tornati in mente i vecchi amici, quelli a cui sei legatissimo quando hai 9 o 10 anni ma con i quali poi, crescendo, perdi i contatti. Ho pensato ai guai in cui spesso ci cacciavamo giocando, e a come in certe occasioni siamo stati davvero fortunati a non saltare in aria o precipitare nel vuoto. Cose da bambini, ma quando cresci ti guardi indietro e dici ‘era davvero pericoloso!

Tutti questi ricordi mi hanno portato a immaginare Ghost Train: ho deciso che doveva essere un film sulle decisioni che prendiamo da ragazzini, e su come tali decisioni siano in grado di influenzare la nostra vita adulta. Un tema piuttosto importante, ma io amo raccontare storie attraverso un punto di vista fantastico e così ne ho fatto un film horror.

 

Il paesaggio gioca un ruolo importante in Ghost Train: dov’è stato girato? Hai fatto uso di effetti visivi particolare per dare vita alla vecchia giostra?

Abbiamo girato a Kildare, in Irlanda. Trovare la giusta location è stato difficile, poi il produttore mi ha detto che secondo lui stavo cercando un posto in cui eravamo già stati. Aveva ragione, perché siamo finiti sullo stesso campo dove era stato girato il mio corto precedente, Billy & Chuck. Benché abbia un respiro epico, tutto il film è ambientato in un luogo solo. Anche le inquadrature dei fratelli adulti all’interno dell’automobile sono state realizzate in quel campo usando un green screen.

Per quanto riguarda la giostra, abbiamo usato alcuni effetti visivi semplici e altri più complessi. Preferisco però non svelare cosa è vero e cosa non lo è: abbiamo lavorato tanto per ottenere un effetto omogeneo. La sfida per lo spettatore è distinguere ciò che è reale da ciò che è stato invece ottenuto con le tecnologie digitali!

 

Come hai scelto i ragazzini che interpretano i giovani Michael, Peter e Sam?

È stato un processo lungo, durante il quale sono stato affiancato dal direttore di casting Nick McGinley, a Dublino. Abbiamo incontrato circa 60/70 ragazzi in un paio di giorni. Li abbiamo messi seriamente alla prova, in particolare quelli che si presentavano al provino per il ruolo di Sam, perché avrebbe dovuto affrontare una sfida non semplice. Abbiamo pre-selezionato sei giovani attori, due per ogni ruolo, e a quel punto non restava altro che compiere una scelta: quale sarà la giusta combinazione? Spero che abbiamo preso la giusta decisione. Secondo me sì.

 

Tre domande a… Ian Lawton, regista di Coma

Coma
Si vive per lavorare o si lavora per vivere? Coma è uno dei cortometraggi selezionati per l’ottava edizione di Irish Film Festa e il regista Ian Lawton l’ha girato utilizzando un iPhone 4s.

Il protagonista, interpretato da Chris Aylmer, si sente in trappola a causa di un lavoro che non gli lascia il tempo necessario per vivere appieno e trascorrere momenti felici con la propria famiglia. Cosa sceglierà di fare?

Ian Lawton ci spiega perché ha deciso di raccontare questa storia e cosa vuol dire realizzare un corto di quattro minuti con uno smartphone.

 

Coma mostra gli effetti che il lavoro può avere sulla vita delle persone: come mai hai scelto questo tema?

Ho tratto ispirazione dalla mia esperienza personale. Per un periodo ho lavorato lontano da casa e facevo il pendolare tutti i giorni. Uscivo prestissimo, mentre la mia famiglia dormiva, e nonostante facessi del mio meglio non riuscivo mai a rientrare in tempo per vedere mio figlio ancora sveglio. Una sera, tornando a casa e trovando per l’ennesima volta il bambino già a letto, ho pensato che era quasi come avere un figlio un coma, dal momento che potevo vederlo soltanto dormire.

Da qui, l’idea per il film, che è ricco di immagini metaforiche ripetute, la vita che scorre via, etc. Si vive per lavorare o si lavora per vivere? Il pubblico ha risposto con grande trasporto emotivo, qualcuno si è anche commosso. Sono in molti a riconoscersi in questa storia, ma naturalmente è aperta a ogni interpretazione.

Fondamentalmente, il corto è una lettera d’amore per mio figlio.

 

Girare con iPhone ha influenzato le tue scelte di regista, soprattutto per quanto riguarda la composizione delle inqyadrature e la fotografia?

In realtà è stato molto liberatorio. Ho potuto realizzare inquadrature che sarebbero state impossibili con una macchina da presa più grande. L’iPhone era così leggero da poter essere montato praticamente ovunque, con l’ausilio di un’attrezzatura ridotta al minimo. Ho girato da solo, senza troupe, e ciò mi ha consentito di procedere velocemente e prendere decisioni sul momento senza aver bisogno di consultare qualcun altro. Per la maggior parte del tempo sul set c’eravamo io e l’attore protagonista Chris Aylmer. Lavorare con un iPhone impone delle limitazioni, certo, ma basta essere consapevoli in anticipo di ciò che si potrà o non potrà fare, e poi volgere la situazione a proprio vantaggio, rendendo quelle limitazioni parte integrante dello stile scelto per il film.

 

E la colonna sonora di Nils Frahm?

È bellissima, vero? Nils è un compositore neoclassico tedesco e For è un brano composto come improvvisazione su un sintetizzatore Juno. Sapevo che la musica sarebbe stata predominante e dovevo sceglierla con molta attenzione. All’inizio avevo pensato a una colonna sonora originale, poi però ho sentito il pezzo di Nils e ho capito subito che sarebbe stato perfetto. Tant’è che ne ho chiesto i diritti prima ancora di mettere il corto in produzione.

 

Tre domande a… Denis Fitzpatrick e Ken Williams, registi di The Break

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Denis FitzpatrickKen Williams sono i registi di The Break, uno dei cortometraggi in concorso all’Irish Film Festa 2015 nella sezione live action. Il protagonista Tim (Ronan Leahy) ha subìto le pesanti conseguenze della crisi economica e ora vive in una tenda sulla spiaggia con i propri figli (Barry Keoghan e Jacob Lea): la famiglia è molto unita ma le cose non sono affatto facili.

The Break è il quarto corto diretto da Denis Fitzpatrick e Ken Williams, dopo Car Film con Jack Reynor, The Daisy Chain con la voce narrante di Fiona Shaw (lo abbiamo visto all’Irish Film Festa lo scorso anno) e The Last Dart con Fionn Walton.

La parola a Denis e Ken, che ci parlano della genesi del progetto e dello splendido gruppo di attori con i quali hanno lavorato.

 

Da dove nasce la storia di The Break?

K. Williams: Sia a me che a Denis piaceva l’idea di girare qualcosa che avesse a che fare con una tenda, la sceneggiatura è nata così. La crisi è un argomento abusato ma ci sembrava comunque di poterlo affrontare da un punto di vista interessante.

D. Fitzpatrick: Ken ha scritto una sceneggiatura molto forte. Un padre allo stremo, che affronta la catastrofe economica a modo suo, semplicemente. Ma vediamo che non è così semplice. Un altro tema importante della storia è rappresentato da coloro che vivono ai margini della società e dal modo in cui vengono trattati.

 

Dov’è stato girato il corto?

K. Williams: Abbiamo girato per quattro giorni, da venerdì a lunedì, lo scorso aprile a Wicklow, che si è rivelata perfetta perché tutte le location di cui avremmo avuto bisogno si trovavamo a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra. Lo scene sulla spiaggia sono ambientate alla Baia di Brittas, un luogo che negli ultimi anni è stato scelto anche dalle produzioni di What Richard Did e della serie tv Penny Dreadful. Il pub e il negozio mostrati nel corto si trovano invece a Redcross, poco lontano.

D. Fitzpatrick: La location è stata molto importante e, davvero, non avremmo potuto chiedere di meglio. Anche le condizioni atmosferiche sono state dalla nostra parte!

 

Cosa ci dite del cast?

D. Fitzpatrick: Ronan Leahy è stato la prima scelta per Tim. Lo tenevo d’occhio già da un po’, dopo averlo visto recitare in Drum Belly all’Abbey Theatre, così quando Ken e io siamo andati a vederlo in The Colleen Bawn, abbiamo capito immediatamente che era lui il nostro uomo.

Barry Keoghan ci è stato invece consigliato da Maureen Hughes, una delle nostre migliori direttrici di casting. La popolarità di Barry è cresciuta molto negli ultimi due anni (grazie alla serie tv Love/Hate, ndr): siamo felici di essere riusciti ad averlo con noi quando era ancora disponibile!

Jacob Lea è un’altra giovane promessa per il futuro, e ha già una buona esperienza professionale pur essendo un ragazzino.

Emmet Kirwan aveva già preso parte ad altri cortometraggi da me diretti, mi ha fatto piacere poterlo coinvolgere anche in The Break. La sua pièce per due attori Dublin Oldschool è stata una delle perle dell’ultimo Dublin Fringe Festival.

Ken invece aveva già lavorato con Aoibhéann McCann e l’abbiamo coinvolta nel progetto fin dalla fase di pre-produzione.

Jon Kenny lo conoscevo per i suoi ruoli da commedia: è stato meraviglioso vederlo nella scena con Ronan, quando il dramma si svela.

K. Williams: Sono entusiasta del nostro cast e della nostra troupe. L’interpretazione di Ronan è straordinaria, e mi aspetto grandi cose da Barry: è un attore completo. Russell, il nostro direttore della fotografia, e i suoi collaboratori hanno reso il film visivamente magnifico. Siamo stati davvero fortunati. È questo l’aspetto più bello del fare film: le persone fantastiche con le quali hai l’occasione di lavorare.

 
IL CORTO IN VERSIONE INTEGRALE

Tre domande a… Damien O’Connor, regista di Anya

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Anya è uno dei cinque cortometraggi animati in concorso all’edizione 2015 dell’Irish Film Festa 2015: è dirigerlo è Damien O’Connor per Brown Bag Films, lo studio (due volte candidato all’Oscar) fondato nel 1994 da Cathal Gaffney e Darragh O’Connell. Damien ha già partecipato al nostro festival lo scorso anno con il corto After You.

Anya, che racconta la storia di una piccola orfana russa, è stato commissionato dall’associazione irlandese To Russia With Love: fondata da Debbie Deegan nel 1998, opera in Russia con programmi di sostegno rivolti ai bambini senza famiglia.

La parola a Damien O’Connor, che ci racconta la genesi e lo sviluppo del progetto.

 

Come mai alla Brown Bag Films avete deciso di realizzare un corto per To Russia With Love?

La direttrice di To Russia With Love, Debbie Deegan, mi ha telefonato un giorno mentre ero al lavoro per chiedermi se sarei stato disponibile a girare per loro uno spot di 30 secondi. Non conoscevo Debbie né la sua associazione, così le ho spiegato che la sua proposta sarebbe stata per me troppo impegnativa e ho rifiutato con gentilezza.

Debbie però non accetta mai un ‘no’ come risposta e mi ha tenuto al telefono per 45 minuti ad elencarle tutti i motivi che mi avrebbero impedito di realizzare il corto. Ho ribadito il mio no, ho chiuso la chiamata e sono tornato al lavoro davanti al computer. C’era già un’email di Debbie Deegan ad aspettarmi: voleva sapere quando avremmo iniziato.

A quel punto mi sono incuriosito e ho dato un’occhiata al sito web di To Russia With Love: ho letto delle attività che l’associazione porta avanti a favore dei bambini e ho capito che dovevo offrire il mio aiuto. Ho richiamato Debbie dandole la mia disponibilità, precisando però che, per ottenere maggiore visibilità, avrei girato non un breve spot pubblicitario ma un cortometraggio vero e proprio. Lei è stata subito d’accordo,  abbiamo proposto la cosa alla Brown Bag Films in cerca di volontari e per fortuna ne abbiamo trovati subito tantissimi.

 

Perché avete scelto proprio questa storia?

All’inizio l’avevo pensata come una storia della buonanotte raccontata da una donna che, nella parte finale, si sarebbe rivelata come la piccola orfana che avevamo visto crescere nel corso del film.

In seguito ho visitato l’orfanotrofio Hortolova a Bryansk, in Russia: lì ho incontrato i bambini, ho ascoltato le loro storie e ho capito ben presto che tutti loro possedevano qualcosa che mancava alla mia storia: la speranza. Quello è stato anche il viaggio durante il quale ho filmato i ragazzini che vediamo nel corto, e Sascha (la ragazzina bionda dei titoli di coda) è diventata la nostra Anya.

Il verso ‘Sogni d’oro, piccola mia’ è una frase che una dei volontari irlandesi era solita sussurrare ai bambini. Così ho riscritto la storia per infondervi più ottimismo e ho disegnato la protagonista ispirandomi a Sascha.

Infine, ci siamo messi al lavoro per tradurre il racconto in animazione: l’ultima inquadratura, con il treno sullo sfondo, per me è stata come l’ultimo pezzo di un puzzle, l’ho messa lì ed ero contento perché avevo tra le mani una storia che funzionava ma soprattutto una storia capace di far comprendere ai bambini che c’è sempre una speranza nel loro futuro.

 

Nonostante il tema trattato sia duro, l’atmosfera del cortometraggio resta lieve: come avete lavorato sui colori? E sulla colonna sonora?

Ho lavorato sul corto anche come art director e ho deciso subito che avremmo dovuto costruire una progressione dalle fredde tonalità di blu dell’inizio al calore del rosso e dell’oro che caratterizzano la parte finale. Per quanto riguarda la fotografia, ho avuto degli ottimi collaborati che hanno lavorato tantissimo sui dettagli: le stoffe, la vernice rovinata dei muri, le texture. Sono stati fantastici.

La colonna sonora è di Darren Hendley, con cui avevo già lavorato in precedenza. Durante la lavorazione avevo usato una musica provvisoria per accompagnare l’animazione ma quei violini così tristi non funzionavano, così ho optato per qualcosa di più ritmato. La buona idea di Darren è stata mettere a punto una musica che cresce gradualmente: è come se la partitura cercasse di partire per tre volte, fallendo finché Anya non riesce ad uscire dal letto per esplorare il luogo in cui si trova.

Una delle musiche provvisorie delle quali mi ero servito proveniva dalla colonna sonora di Gravity, con la splendida Lisa Hannigan. L’ho contatta per chiederle di registrare per noi le parti vocali, ed è stata davvero carina e disponibile. Abbiamo lavorato parallelamente sulla musica e sul montaggio con piccoli aggiustamenti finché l’insieme non ci ha convinti del tutto. Sono completamente soddisfatto del risultato, e chiunque veda il corto finisce per amarne la musica!