Tre domande a… Brian Deane, regista di Blight

Intervista a Brian Deane - Blight - Irish Film Festa

 
Un giovane sacerdote viene inviato su una remota isola al largo della costa irlandese per aiutare la locale comunità di pescatori a difendersi da oscure forze soprannaturali, ma niente è come sembra: Blight è un cortometraggio di genere horror in concorso alla 10a edizione di Irish Film Festa (30 marzo – 2 aprile, Casa del Cinema).

Ne parliamo con il regista Brian Deane, già vincitore dell’Irish Film Festa 2014 con il corto Volkswagen Joe interpretato da Stuart Graham.

 

Perché tu e lo sceneggiatore Matthew Roche avete scelto di ambientare la storia in un’epoca passata e in un luogo isolato? E dove è stato girato il corto?

A Matt e me piaceva l’idea di ambientare la storia in un pezzo di Irlanda senza tempo, sul quale regnano la superstizione e la paura dell’ignoto. Blight vuole essere anche veicolo di una critica sociale sull’Irlanda, perciò l’ambientazione in una piccola isola ci è sembrata funzionale. Abbiamo girato sul Lough Dan, un lago tra le montagne del Wicklow, mentre per gli interni è stato costruito un set nella Killruddery House, sempre nel Wicklow.

 

Per quanto riguarda il genere horror, avevi in mente qualche particolare modello letterario o cinematografico?

Dal punto di vista stilistico, volevamo che Blight ricordasse gli horror degli anni 60 e 70, caratterizzati da una molteplicità di livelli interpretativi e da un’estetica molto elegante. Importanti riferimenti visivi per me sono stati Rosemary’s Baby, L’esorcista, and Il nastro bianco di Michael Haneke.

Credo che al giorno d’oggi il genere horror sia saturo di film basati sull’espediente del found footage, a scapito della densità tematica e della capacità di far riflettere su cosa si nasconde sotto la superficie. Blight va decisamente contro questa tendenza e vuole essere un piccolo film intelligente che sembra realizzato qualche decennio fa. Per ottenere quato risultato abbiamo curato molto la composizione delle inquadrature, limitando al minimo i movimenti di macchin; anche i primi piani sono pochi e l’illuminazione contribuisce a suggerire un’atmosfera antiquata. Gli unici vezzi moderni che si siamo concessi sono stati degli obiettivi decentrabili, usati per filmare il punto di vista del demone. Devo ringraziare il nostro direttore della fotografia Russell Gleeson se Blight appare come un’opera girata quarant’anni fa.

 

L’orrore di Blight sembra avere origine non solo dal soprannaturale ma anche dai legami familiari e dal potere religioso. Come hai lavorato per suggerire questa ambiguità, soprattutto con gli attori?

Ciò che amo di più del genere horror, a parte spaventare le persone, è la possibilità di suggerire più livelli di significato. Certo, superificialmente è tutta una questione di brividi, ma, andando più a fondo, l’horror è sempre stato un potente strumento di critica sociale: penso al tema dell’omosessualità nel sottogenere dei vampiri, alla lotta di classe in Non aprite quella porta, o a The Mist, che affrontava la paranoia e la retorica del post 11 settembre.

Con Blight volevamo esplorare il legame che da sempre lega chiesa e società irlandese, e come questo legame avrebbe portato agli orrori e agli scandali venuti alla luce nel secolo successivo. In quale altro paese un straniero avrebbe potito introdursi in una casa e, meno di 24 ore dopo, uscirne con in braccio un neonato senza che qualcuno gli facesse domande? Tra la chiesa e le famiglie irlandesi è sempre esistita una forte complicità nel nascondere incesti, abusi sui bambini, stupri e malattie mentali, utilizzando istintuzioni come le lavanderie Magdalene o le terribili industrial school (scuole-riformatorio per minorenni, ndr).

Nel film la chiesa è fisicamente quasi assente, dal momento che i suoi veri emissari arrivano troppo tardi per influenzare realmente l’azione, ma sono la società e la famiglia che la chiesa ha contribuito a creare a subire la punizione peggiore.

Per Blight abbiamo potuto contare su un cast di grande talento: con gli attori ho discusso a lungo dei personaggi, delle loro motivazioni e paure, meravigliosamente espresse nell’aenigmatico Padre Carey di George Blagden e nella terrificante rappresentazione demoniaca di Alicia Gerrard.

Il tema dell’abuso familiare viene veicolato dalle brillanti interpretazioni di Joe Hanley e Marie Ruane nei panni dei genitori di Maebh: leggiamo sui loro volti il senso di colpa e la paura per aver consentito che una gravidanza incestuosa prendesse forma sotto il lro tetto, permettendo così che un mostro crudele e vendicativo distruggesse le loro vite.